Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
“Da una parte c’era il mare, invaso di adolescenti in quell’ora bestiale. Dall’altra il muso dei casermoni popolari. E tutte le serrande abbassate lungo la strada deserta. Il mare e i muri di quei casermoni sotto il sole rovente del mese di giugno, sembravano la vita e la morte che si urlavano contro. Non c’era niente da fare: via Stalingrado, per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria”. Silvia Avallone, Acciaio (Rizzoli)
Il romanzo d’esordio di Silvia Avallone non ha bisogno di presentazioni. Vincitrice del Premio Campiello Opera Prima e seconda al Premio Strega (non ha vinto per un soffio contro Antonio Pennacchi e il suo “Canale Mussolini” Mondadori), in “Acciaio” l’autrice racconta la storia di Anna e Francesca, amiche inseparabili che vivono nei casermoni di via Stalingrado, a Piombino, una periferia operaia dove non è facile avere 14 anni. “La mia intenzione era di parlare della realtà – racconta Silvia Avallone - La città di Piombino mi ha criticata, perché c’è chi crede che la letteratura debba fare pubblicità. Invece la letteratura può toccare tasti dolenti, ha un valore etico, là dove la tv tende a semplificare. Con il mio libro ho scardinato il mito operaio”. Una storia dove si alternano bellezza e squallore, arroganza e fragilità. “Dentro la bellezza e la verità c’è un nucleo di inquietudine che però secondo me aggiunge, non toglie – spiega Silvia Avallone - Sono andata a caccia di operai, di maschi che tradiscono le loro donne nei night, di donne che stanno a casa ad aspettare e in tutto ciò io ci ho visto la vittoria delle persone, dell’affetto, della comprensione. L’emancipazione della donna l’ho incontrata più in tv che nella realtà. E poi si parla molto di queste donne tanto emancipate, non hanno bisogno che la letteratura si scomodi per loro. Io invece racconto la realtà di donne brutte, grasse e che sanno poco l’italiano”.
Fixing n. 34 - 2010
C’è un periodo per ogni cosa. Anche quando si parla di lettura. Se hai voglia di frivolezze non cominciare Borges o lo odierai per sempre. Se hai voglia di avventura non leggerti un saggio o ti avvilirai. Ma se una mattina ti svegli e decidi di prendere in mano il libro che da anni ti consigliano, fallo. E preparati. Alla delusione. O alla grande scoperta. E grande è stata la scoperta leggendo “Cuori in Atlantide” di Stephen King (Sperling&Kupfer, 2000). Qui non è il maestro dell’horror a raccontare. Qui lo scrittore diventa la mano del destino, che in cinque racconti – all’apparenza scollegati ma in realtà inscindibili – compone una tela complessa di mistero e ineluttabilità. Tutto ha inizio con “Uomini bassi in soprabito giallo”, con l’incontro tra il piccolo Bobby Garfield e l’anziano Ted Brautigan. E qui ci troviamo di fronte allo Stephen King che preferisco, quello capace di raccontare l’amicizia e i sentimenti – spesso contrastanti e intinti nel sopranaturale – con la profondità di una penna che non si appoggia sul foglio, ma lo squarcia. Anche quando è delicato, Stephen King è così potente da lasciarti l’amaro in bocca. E quando non è delicato, la violenza diventa qualcosa di selvaggio, non colpisce solo l’immaginario, ti mozza il fiato, ti fa male allo stomaco da quanto ci affonda il suo pugno. Poi il libro procede spiazzando il lettore. Nel secondo racconto (cha dà il titolo al libro) nuovo protagonista, nuova ambientazione, altri anni. Gli anni che vedono nascere i movimenti contro la guerra in Vietnam. Gli anni in cui comincia a vedersi in giro il simbolo della pace. E in cui incontriamo Carol – il primo amore di Bobby - al college. È una giovane donna. È il filo conduttore di una storia che prende forma quando tutti sono bambini. Bambini che non dimenticano. Bambini che diventano adulti pieni di rimorsi e convinzioni che sfociano nell’errore, in onore di una giustizia imparata da piccoli. E gli anni procedono negli altri racconti (“Willie il cieco” e “Perché siamo finiti in Vietnam”, sotto tono rispetto al resto). E raccontano la guerra. Quello che ha lasciato a chi è riuscito a tornare. Quello che ha lasciato a chi non è mai partito. Fino a “Scendono le celesti ombre della notte” – brevissimo racconto conclusivo – che riporta in qualche modo alle origini, come se solo da anziani si riuscisse a guardare allo specchio il bambino che si è stati, senza vergognarsi. Come se tornare dove tutto ha avuto inizio fosse un dolore da affrontare solo quando ne hai incontrati tanti altri, tanto più forti. Solo allora ci si può sedere nell’angolo del bosco dove non avresti voluto più tornare. Solo allora ti puoi sedere lì, senza avere più paura ma solo nostalgia. Perché sedendoti su quella panchina, aprendo un vecchio libro, quello che vedi non sono gli errori, ma l’attimo prima, il momento preciso in cui ancora dovevi compierli. Il momento in cui avresti potuto fare qualcosa di diverso. Il momento in cui eri un bambino che dava la caccia a code di aquiloni appese ai cavi del telefono.
Fixing n. 34 - 2010
“E chi lo sa se anche tu mi vuoi bene a volte credo di esserne certo a volte invece sembra tutto uno scherzo fuggono gli occhi come falene…”
da Dylan Dog n° 74 Il lungo addio
A volte un addio capovolge il mondo per come lo conosciamo. E se il mondo in questione è quello di Dylan Dog l’effetto può essere devastante. E allora benvenuti nell’universo parallelo di Tiziano Sclavi, che ne “Il lungo addio” si allontana da mostri, indagini e scene splatter, per regalarci una poesia. Una poesia davanti a cui anche Groucho, l’assistente un po’ pazzo di Dylan Dog, per una volta – l’unica volta nella storia del fumetto! – non trova parole. Rimane zitto. Si comporta quasi da persona normale. Non servono le sue battute in queste tavole. O forse anche lui è sopraffatto dalla storia di Dylan e Marina, il primo amore dell’indagatore dell’incubo. Amore mai dichiarato e già perduto. Il presente e il passato si avvinghiano in una lenta danza onirica tra i disegni mozzafiato di Carlo Ambrosini. E la strada verso Moonlight - la strada che Dylan percorre per accompagnare a casa Marina – è un viaggio in un’estate lontana, in cui tutto poteva ancora accadere. Ma poi nulla è andato come pensavano. E questa Marina che ancora si passa due dita tra i capelli come faceva da ragazza, questa Marina che in un’estate ha reso Dylan Dog tanto di ciò che è ora, questa Marina non è più concreta di un sogno, non è più fisica di un ricordo. È solo un’occasione per dirsi addio. Come non avevano mai fatto. Fixing n. 31 - 2010
La parola addio è piena di significati, perché a qualunque cosa o persona sia rivolta, c’è tutta una storia dietro. C’è il perché lo si dice, il come, c’è quello che è avvenuto prima e ha portato fino a quel momento. E c’è tutto quello che verrà dopo. O meglio, quello che si spera – e si teme - venga dopo. A volte si è costretti a dire addio all’immagine che abbiamo di noi stessi, come ne “La carriola” (a proposito, qui il testo integrale) di Luigi Pirandello (in “Novelle per un anno” e anche nell’audiolibro “Pallino e Mimì – La carriola” edito da Il narratore Audiolibri). Non basta avere una professione stimata, una famiglia da cui tornare. Non basta l’intelligenza. E nemmeno la follia. L’immagine che proiettiamo di noi non basta, per capire chi siamo. E l’avvocato tratteggiato da Pirandello lo capisce. Lo capisce in un momento apparentemente senza significato, mentre viaggia su un treno verso casa. Capisce che ha passato la vita a indossare maschere, spesse e variegate maschere che cambia a seconda della festa a cui è invitato. Sempre straordinario Pirandello. Sempre incredibilmente attuale, attento all’inquietudine dell’uomo, a quello che si rimescola nel suo animo. E sempre pronto a raccontarlo con uno stile scorrevole, con parole che scivolano veloci sotto gli occhi. “Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un’anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo”. E allora addio a quello che un uomo è stato, se finalmente ha deciso di scoprire se stesso. Addio a ciò che la famiglia, gli amici e la società da lui hanno sempre preteso, senza chiedere mai, in un ordine muto e costante che creava strati di sensi del dovere e di colpa a cui non poteva scappare. C’è una soluzione a questo addio? C’è un addio che faccia meno male di così? C’è quello che viene dopo. C’è il momento in cui quest’uomo decide di strappare via quello scudo pesante e serrato che aveva appoggiato sull’anima e decide a suo modo di liberarla, smettendo di nasconderla almeno a se stesso. C’è la ricerca di una sopravvivenza che non sia solo apparenza. C’è un desiderio di portare avanti quella messa in scena che non sa bene quando e come ha costruito ma a cui – ammettiamolo – ormai si è affezionato. Una messa in scena di cui crede abbiano bisogno anche quelli che lo circondano. Ma c’è anche il desiderio di creare uno spazio che sia solo suo. Un momento in cui essere pienamente se stesso. Ogni giorno. Ogni giorno un po’ di follia. Un po’ di quello che sarebbe potuto essere. Ogni giorno il sapore della vita che si è svelata ai suoi occhi. L’avvocato non rinuncia all’esistenza che fin lì ha costruito. Ma nel segreto del suo studio compie un gesto, sempre lo stesso. E in questo gesto lui non è padre, non è marito, né avvocato, né borghese. È libero. E ognuno si conquista la propria libertà come può, dove può, per il tempo che gli è concesso o che lui stesso si concede. Sarebbe bello però se la libertà non fosse solo un gesto innocuo da dover compiere di nascosto. Sarebbe bello se la libertà non fosse solo un gesto di cui in fondo ci si vergogna. Da Fixing n.31 - 2010
È cresciuto leggendo Verne e Stevenson. Non stupisce quindi che da bambino volesse fare l’esploratore. “È stato brutto scoprire che avevano già scoperto tutto. Ho pensato che si sbagliavano”. E in effetti si sbagliavano, perché John Boyne non avrà trovato il centro della terra o l’isola del tesoro, ma ha scoperto storie che hanno conquistato il mondo, come La sfida (Bur), e Il bambino con il pigiama a righe (Rizzoli), best seller internazionale da 5 milioni di copie vendute. Questa superstar della narrativa ha incontrato i suoi a lettori a Rimini, a Mare di Libri, il festival dei ragazzi che leggono (e che piace molto anche agli adulti, vista la partecipazione di genitori, insegnanti, addetti ai lavori o appassionati): un vero e proprio gioiellino organizzato dalla libreria Viale dei Ciliegi 17. In attesa del nuovo romanzo Il bambino con il cuore di legno (Rizzoli) – ma in Italia non si possono tradurre i libri di Boyne senza metterci la parola bambino nel titolo? – l’autore ha parlato della sua opera di maggior successo, che racconta l’amicizia tra Bruno, figlio di un comandante delle SS, e Shmuel, chiuso in un campo di concentramento. “Una notte mi è venuta l’idea di due bambini che parlavano divisi da un recinzione di filo spinato. In soli due giorni e mezzo ho finito la prima bozza: ero sopraffatto dal libro. Mi dicevo non pensare troppo, non farti prendere dagli intellettualismi, vai avanti”. Boyne sapeva pochissimo dell’Olocausto, finché non ha letto Se questo è un uomo di Primo Levi. “Mi ha fatto crescere dentro l’orrore, spingendomi a documentarmi in cerca di risposte. Quando nel 2004 ho scritto questo libro, ricercavo già da 15 anni”. Sin dall’inizio sapeva che il protagonista doveva essere un bambino, perché erano necessaria quella ingenuità e quella innocenza. “Non poteva però essere il bambino ebreo, perché pur avendo letto tanto non potevo immaginare cosa significasse stare dentro a un campo di concentramento. Potevo invece immaginare di guardarlo da fuori. Questo fanno gli scrittori: camminano verso il filo spinato e cercano di guardare dentro”. Ed è proprio avvicinandosi a questo filo che la vita di Bruno diventa altro. “Quando scopre cosa fa il padre, deve decidere da che parte stare. Alcune situazioni, tra cui veder picchiare il suo amico, gli fanno capire che tutto questo non è giusto”. Non c’è violenza tra le pagine, perché quando accade qualcosa di tremendo Bruno non trova le parole e non lo descrive. “Mio nipote che allora aveva 10 anni avrebbe voluto un lieto fine ma per me questo è un finale onesto. Chi legge rimane turbato ma si accorge che questi due bambini così diversi condividono una fede, hanno delle somiglianze, come se il filo spinato fosse uno specchio. Vorrei che il lettore si allontanasse dal libro capendo quanto è sbagliato il pregiudizio”. Dal libro è stato anche tratto un film. “Ho cercato di essere di aiuto a regista e produttore, non distruttivo. Mi soffermavo prima sulle cose positive poi educatamente chiedevo ciò che non capivo, così si è creato un rapporto di fiducia e rispetto. Il risultato è un film assolutamente dentro lo spirito del romanzo”.
Da "Fixing" del 2 luglio 2010

Una sera durante un incontro con i lettori, dal piccolo gruppo riunito davanti a me si alza una mano. Un signore anziano – un anziano vero, non uno di quelli stile “mi conservo come una mummia al botox”, e nemmeno di quelli che “non essere più giovani è un insulto”, insomma un anziano come quelli di una volta! - si solleva in piedi e mi chiede: “Perché nei libri i protagonisti sono sempre ragazzi? Non parlate mai dei vecchi?”. Già, i vecchi. Quelli che hanno l’esperienza. Che hanno visto anni che noi possiamo a malapena ricostruire. Quelli che hanno fatto della loro esistenza saggezza. Dove sono i vecchi così? Non dappertutto, purtroppo. A volte si incontrano nei libri. Chi è fortunato – come me – può incontrarli nella realtà. Queste persone che hanno una struttura che non esiste più, capaci di andare in bicicletta a novant’anni e brindare con vino rosso. Capaci di vivere tranquilli, condividendo se stessi con i malanni (più o meno gravi) e una badante. Anziani che si annoiano davanti al Grande Fratello perché “quelli stanno in una casa a far niente, cosa c’è da guardare?”. Caratteri forti, spesso duri, che il tempo ha levigato fino ad ammorbidire, o rendere ancora più tremendi. Vecchi che non si vergognano di appartenere a un’altra generazione. Che danno un senso e un valore profondo ai loro anni. Vecchi come il Santiago di Hemingway (“Il vecchio e il mare”), con quella forza di volontà, capace di affrontare i pescicani, di tornare sconfitto ma degno, ancora più sofferto nel corpo e nell’espressione, ma vivo. Vecchi vivi perché vivi vogliono rimanere. Come l’Amaranta di Marquez - in “Cent’anni di solitudine” - che morirà solo quando avrà finito il suo sudario, e allora procede con calma poi con più fretta, e intanto organizza il suo funerale, decide la data, dove morire, e tutto avviene come lei ha scelto. La letteratura parla di vecchiaia. E lo fa con una penna gentile e cruda. Come quando Sepulveda racconta di Antonio José Bolívar Proaño, “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, che ha vissuto avventure e tragedie, pronto a mettere in gioco la sua stessa esistenza quando gli chiedono aiuto, pronto a mettersi da parte, con se stesso e i suoi libri, quando il mondo non ha più bisogno di lui. E poi c’è la vecchietta dipinta da Aarto Paasilinna ne “Il bosco delle volpi” (Iperborea). Un’ultranovantenne che i figli vogliono rinchiudere in un ospizio proprio il giorno del suo compleanno. Ma lei non ci sta, scappa con il suo gatto fino al bosco, dove si rifà una vita in compagnia di un gangster e di un maggiore dell’esercito finlandese. Un capolavoro di vecchietta! Questi sono gli anziani “fatti di pagine” a cui sono più affezionata. Anziani che non sono il capitolo finale dell’essere uomo, ma l’audace proseguimento di un cammino.
Da "Fixing" del 4 giugno 2010
“Che cos’è per noi, oggi, la memoria? Come la pensiamo e come la utilizziamo?” con questi interrogativi si apre il Salone internazionale del libro di Torino (Lingotto Fiere, dal 13 al 17 maggio). Tema conduttore di questa edizione è proprio “La memoria, svelata”. La memoria che porta alla tomba di Alessandro Magno, raccontata da Valerio Massimo Manfredi. La memoria della nostra storia racchiusa in un romanzo, come sa fare Melania Mazzuco. La memoria della poesia, con l’incontro di Yves Bonnefoy (Premio Alassio). La memoria dell’orrore raccontato da Helga Schneider, che nel suo “La baracca dei tristi piaceri” narra un’altra pagina - poco conosciuta ma non per questo meno tremenda - del nazismo. C’è la memoria raccontata per immagini dai registi Giuseppe Tornatore e Pupi Avati. C’è una memoria che verrà, un avvenire della memoria descritto da Umberto Eco. E poi ancora gli interventi di Luciano Canfora, Claude Lanzmann, Giampaolo Pansa. Grandi autori che attraverso la loro personale conoscenza ed esperienza tenteranno di svelare la memoria. Questo momento che non è ieri, è un tempo diventato eterno, un perenne qui e ora, che ancora pulsa dentro ognuno. Un qualcosa che magari non ci ha toccato personalmente, di cui magari non siamo stati nemmeno testimoni, ma fa comunque parte di noi. Qualcosa con cui dobbiamo fare i conti, anche se non siamo stati noi a sceglierlo. Qualcosa che ha scosso così tanto la terra, da sentirne ancora lo scricchiolio dentro. Da sentirne ancora l’esempio. Da imitare. O da non imitare mai più. Ognuno ha dentro di sé la sua memoria. Gli eventi storici o i personaggi che più ci ispirano. O che più ci fanno indignare. E ancora germogliano i semi gettati dalle vittime e dai carnefici del passato, ancora dobbiamo farci i conti, perché far finta di niente significherebbe rivivere sempre gli stessi drammi. Peccato per chi crede che sapere a memoria date e nomi significhi avere memoria di un fatto, della sua tragedia e della sua redenzione. La memoria è fatta da noi. Non solo da quello che ricordiamo ma da quello che consapevolmente conosciamo – e accettiamo – del nostro passato più prossimo (il nostro ieri, la nostra famiglia di sangue, la generazione che ci ha preceduti) e del nostro passato più viscerale e antico (le battaglie combattute da altri, i popoli nostri padri). Un bagaglio ancestrale da non dimenticare, da cui imparare, ma da cui non lasciarsi schiacciare, perché il passato ci uccide se per paura di sbagliare smettiamo di tentare.
da Fixing del 7 maggio 2010

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Per essere una buona lettura, un libro non deve essere per forza un tomo di mille pagine, un concentrato di profondità. Non deve nemmeno atteggiarsi a impegnato o impegnativo. Non ci deve obbligatoriamente ricordare tutti i problemi del mondo. Un libro può anche sdrammatizzare, può essere letto in un’ora, può non essere un capolavoro, avere mille pecche ma rimanere comunque una buona lettura, lasciarti comunque qualcosa. Sono una sostenitrice (anche) delle letture leggere. L’importante è che non scadano nella banalità. Qualche tempo fa il mio amico Muro mi ha consigliato un romanzo di Eric Emmanuel Schmitt, intitolato “Il lottatore di sumo che non diventava grosso” (edizioni e/o). Schmitt è un autore francese molto eclettico. È un autore teatrale (sua la pièce “Piccoli crimini coniugali”), uno sceneggiatore cinematografico (“Lezioni di felicità” – tratto da un suo racconto - è un film semplice e trasognato che spiega molto bene come la gioia nell’affrontare una quotidianità non proprio brillante migliori l’esistenza fino a farla cambiare e renderla più bella dei tuoi sogni) e uno scrittore di successo. Suo il romanzo “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” da cui è stato tratto il film con un grandissimo Omar Sharif. La storia de “Il lottatore di sumo che non diventava grosso” è molto semplice: Jun è un ragazzino mingherlino di quindici anni che vive per le strade di Tokyo, da solo, vendendo chincaglieria molto brutta. Non ha più il papà, sua madre è un’analfabeta che sembra capace di prendersi cura di tutti tranne che di lui, e al mondo non ha nessun altro, non un amico, non un insegnate perché a scuola non ci va. La sua vita sembra destinata a svanire così, nell’assenza di prospettive e in un corpo talmente gracile da risultare quasi invisibile. Ma qualcuno si accorge di lui. Un maestro di sumo lo vuole nella sua Accademia, perché vede in lui “un grosso”. Jun si ritrova catapultato in una realtà di cui non aveva mai nemmeno lontanamente sospettato il fascino e la profondità. Impara la forza, la potenza sottile delle energie, l’accettazione di sé, dei propri limiti prima ancora delle proprie potenzialità, attraverso il buddismo zen (che tra l’altro in Occidente va molto di moda, come se nella cultura europea non ci fosse un insegnamento altrettanto forte per sfuggire al consumismo, alla fretta e alla meccanicità dell’esistenza…). Ci sono momenti di questo libro davvero toccanti. Toccanti le lettere di una madre analfabeta che senza scrivere una parola riesce a dire tutto: un foglio bianco con una piccola macchiolina nel centro per far sapere al suo bambino quanto ha pianto quando se ne è andato; una pietra grigia per raccontargli la pesantezza del suo cuore; un vecchio collare spezzato per lasciarlo libero… Interessante anche quando il vecchio maestro spiega a Jun perché nonostante l’attività fisica e il cibo non riesca a crescere, ingrassare, prosperare: “perché non è possibile nutrirsi di se stessi”. Il libro però non è tutto così. Ripeto se avete voglia di una lettura leggera, questo può essere una soluzione. Ma non aspettatevi troppo. Non fatevi ingannare dai passaggi ricchi di significato nella loro semplicità. Le frasi scontate sono dietro l’angolo. E non mancano nemmeno soluzioni che lasciano un po’ perplessi. Quando però un libro non ha pretese è un rischio che si può accettare. Nulla di indimenticabile. Ma un modo piacevole di passare qualche ora. E se poi vi sentite un po’ come Jun, come uno destinato a rimanere quasi invisibile allora sarà particolarmente incoraggiante leggere la storia di questo ragazzino, che nel suo impegnarsi per diventare “grosso” impara a diventare “grande”.
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Capelli spettinati, pantaloni larghi e una sciarpa svolazzante intorno al collo. Non c’è dubbio, nella copertina di Lettere a una sconosciuta di Antoine de Saint-Exupéry c’è l’indimenticabile personaggio da lui creato, Il piccolo principe che viaggia per cielo e terra, incontrando ubriachi, vanitosi e re, prima di raggiungere il deserto e quell’aviatore a cui racconterà la sua storia. E il deserto sembrerà meno terribile e immenso quando verrà riempito dalle parole di un bambino “dai capelli color del grano” innamorato di una rosa, amico di una volpe, capace di educare alla legge del cuore l’aviatore e con lui ottanta milioni di lettori. Un libro da rileggere da adulti, per riscoprire la profondità e lo stupore dell’esistenza. Un libro che come annunciano due produttori francesi diventerà un film d’animazione in 3D da 45 milioni di euro. Non è il primo tentativo di “animare” il principino – ne hanno fatto un cartone a episodi i giapponesi negli anni Ottanta e i francesi nel 2008 – ma se “L’essenziale è invisibile agli occhi” ogni tentativo risulta un accanimento eccessivo. Non bisognerà però aspettare questa trasposizione per vedere un nuovo aspetto dell’amato personaggio. In Lettere a una sconosciuta. L’ultimo amore del piccolo principe c’è in lui una malinconia che l’autore svela per la prima volta. Mentre scrive alla sua donna – una donna giovane, già sposata, da cui è stato folgorato sul treno per Algeri – Saint Exupery disegna il piccolo principe e lo fa diventare apertamente una parte di sé, gli mette in bocca i suoi pensieri, la sua tristezza, la sua insofferenza nell’attesa di questa petit fille che amerà nel suo ultimo anno di vita. Ed è grazie a lei - e alle lettere ritrovate e riunite nel volume della Bompiani - che scopriamo il legame profondo tra lo scrittore e la sua immortale creatura. Il piccolo principe è dentro Saint-Exupéry. È lui che esulta all’idea di una nuova primavera quando incontra la donna. Ed è lui che soffre rovinato dalle sue poche attenzioni, da lei ucciso, perché “Un piccolo principe scettico non è più un piccolo principe”. Le voci di autore e personaggio si sovrappongono. Ma poi c’è l’uomo. L’uomo che dentro ha il candore e la vitalità del principino (“Ascolti la musica del cuore: è bellissimo per chi è capace di sentire”) ma che fuori non è più giovane e ha paura per ciò che non potrà più essere: “Niente ha importanza nella vita. (Nemmeno la vita). Addio, roseto”. Ma l’addio non c’è stato. Saint-Exupéry e il suo piccolo principe sono rimasti insieme fino alle fine. E fino alla fine sono rimasti insieme lo scrittore e la signorinella delle lettere. Insieme fino al mistero, fino a quel volo sul Lockheed P-38 Lightning da cui non è più tornato. Ma questa è un’altra storia.
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“Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira” J. D. Salinger, “Il giovane Holden” (Einaudi)
Holden Caufield è un ragazzo che viene cacciato dalla scuola e che cerca di rimandare il più possibile il momento in cui dovrà confessare tutto ai suoi genitori. Così torna nella sua città natale, New York, ma non a casa, non dai suoi, e se ne va in giro, alla larga dalla famiglia e dalle convenzioni. Una storia semplice, datata (è stata pubblicata nel 1951) ma raccontata in maniera così originale e grandiosa da conquistare ogni anno migliaia di lettori, fino a raggiungere i 60 milioni. A raccontarla è Jerome David Salinger. E la racconta con un linguaggio diretto, scocciato, attraverso immagini oniriche, disarmanti, tra insofferenza e jazz, fino a costruire un universo così saturo e in movimento da far dimenticare chi lo ha creato. Salinger è morto lo scorso 28 gennaio, aveva 91 anni e da quasi 50 non si faceva vedere. Si era ritirato nel New Hampshire, a Cornish, facendo perdere le proprie tracce, tanto che qualcuno si è stupito non per la morte ma per il fatto che fosse ancora vivo. Forse in pochi pensavano a Salinger, allo scrittore, al personaggio controverso che ha scelto l’isolamento, il non apparire, in maniera quasi ossessiva. Ma il suo giovane Holden non ha perso un grammo di fascino, spicca come nuovo nelle librerie, riposa sui comodini, è difficile da trovare in biblioteca e le sue frasi più belle sono sottolineate da matite di tutto il mondo. Salinger se ne è andato. Holden è vivo. Ma non solo: Holden è giovane. È giovane non di età, ma nella sua rabbia, nel modo di pensare, nelle “cose da matti” che gli succedono, come se avesse compiuto diciassette anni l’altro giorno, lui che è figlio di un tempo che a raccontarlo oggi sembra una bugia.
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